Solo dal connubio coltura e cultura nasce un grande vino
Per me diventare enologo era quasi un dovere, non per questo mi sono fatto trascinare in questo mestiere sentendomi tenuto a dare o a restituire qualcosa. L’ho fatto solo per la passione che mi ha coinvolto in modo “irrecuperabile” fin dalla mia adolescenza. Tutto sembrava troppo logico e inevitabile per pensare di non seguire quella strada, soprattutto dopo aver passato l’infanzia e l’adolescenza a contatto con la natura e con il modo del vino, in cantina con mio padre. Un amore iniziato fin dai miei primi passi, sbocciato prepotentemente con la conoscenza acquisita durante gli studi universitari e con le prime esperienze concretizzatesi con il lavoro nelle cantine.
Sono rimasto fedele a quell’amore per tutta la mia vita, accrescendone il valore, consolidandone l’importanza, interpretandone i cambiamenti che con gli anni sono avvenuti, contribuendo a variare la visione e comprensione del vino che berremo. Un esercizio di condivisione che, posso assicurarvi, non è stato facile, né tanto meno semplice.
Nel corso degli anni si sono alternati alti e bassi nella mia professione, spronandomi a riflettere e a dissipare i dubbi e le preoccupazioni che, via via, nascevano. Mi domandavo cosa avrei dovuto fare per emergere e valorizzare ciò che facevo.
Volevo che quell’amore fosse un percorso interiore non solo unico e appagante, ma anche magico per me e gli altri. Mi resi conto che ciò che dovevo fare era semplice; quel lavoro doveva essere lo specchio fedele di ciò che sono: curioso, creativo, semplice, etico e propositivo.
Bastava applicare il mio pensiero, seguire il mio istinto e produrre vini che piacessero sia ai neofiti sia a quelli che cercano nel vino qualcosa di più.
SE INIZIALMENTE PER ME DIVENTARE ENOLOGO ERA QUASI UN DOVERE, IN REALTÀ QUESTO LAVORO NON HA TARDATO A TRASFORMARSI IN PASSIONE. UNA PASSIONE CHE MI HA COINVOLTO IN MODO “IRRECUPERABILE” FIN DALLA MIA ADOLESCENZA, FACENDOMI CAPIRE CHE QUEL LAVORO DOVEVA ESSERE LO SPECCHIO FEDELE DI CIÒ CHE SONO: CURIOSO, CREATIVO, SEMPLICE, ETICO E PROPOSITIVO. BASTAVA APPLICARE IL MIO PENSIERO, SEGUIRE IL MIO ISTINTO PER PRODURRE VINI CAPACI DI PIACERE SIA AI NEOFITI SIA A QUELLI CHE CERCANO NEL VINO QUALCOSA DI PIÙ.
Facile a dirsi, ma come raggiungere quel fine, da dove avrei dovuto partire? Dall'eleganza alla quale aggiungere la complessità. Un mix perfetto; i due aggettivi che più di altri descrivono da sempre i miei vini e rappresentano la mia filosofia produttiva. Parto dalla vite per raggiungere questo traguardo È lì il focus del mio percorso operativo, quella componente agronomica che tanto mi appassiona e che approfondisco fin dai tempi dell’Università. Per me è sempre stata questa la strada per arrivare alla qualità: è nella viticoltura il futuro del vino italiano, senza contrapporre il tradizionalismo all’innovazione tecnologica. In Italia abbiamo la più ampia e bella viticoltura del mondo, ma non abbiamo la visione del mondo che invece ci si aspetterebbe con il grande patrimonio che ci è stato trasmesso.
Non ho mai pensato che il vino si faccia in cantina! È solo dal connubio fra coltura e cultura nella gestione del frutto che nasce un grande vino! In cantina, dando per scontata la conoscenza della magica trasformazione che regola la nascita del vino, è necessario incidere il meno possibile per non comprometterne il risultato finale.
Nel tempo le competenze aumentano stimolate dall’esperienza che mi aiuta nella ricerca anche di vini diversi, particolari, quelli che oggi caratterizza- no certe cantine di cui sono consulente.
Questo percorso innovativo non si discosta però da quello iniziale essendo ogni vino che contribuisco a realizzare l’espressione di ciò che sono.
Bubble's N.13 2021
Gianni Menotti: professione enologo
Gianni Menotti è un predestinato al mondo del vino e dell’enologia. Nativo di Sagrado, un piccolo comune in provincia di Gorizia, sin dalla tenera età respira i profumi e la realtà enoica di una grande azienda italiana, “Villa Russiz”, gestita dal padre Edino per 35 anni. Dopo la laurea in enologia, presso l’Università di Padova, con una tesi sul Picolit, nel 1988 subentra, nella conduzione enologica, al padre in azienda. Dopo pochi anni, però, decide di intraprendere un percorso professionale che lo porterà a valorizzare importanti azienda della regione per poi spaziare sia in Italia che all’estero.
Importanti riconoscimenti professionali si susseguono negli anni: nominato enologo dell’anno per due volta e Ambasciatore dell’Associazione Nazionale Città del Vino, ma anche attestati su guide non fanno altro che ribadire l’autorevolezza del lavoro svolto. Menotti però, non si mai adagiato su quanto fatto, la sua filosofia operativa è molto metodica e non lascia niente al caso: il territorio al centro del suo progetto professionale.
Come e quando è nata la passione per il vino?
Penso da sempre. Ho vissuto in campagna fin dalla nascita e da sempre ho respirato la natura, specialmente quella della vite prima e del vino poi. Mio padre era direttore-enologo di un’importante azienda del Collio.
Quando ha deciso che l’enologo sarebbe diventata la sua professione?
Respirando quell’aria era inevitabile non seguire quei profumi e quel costante attaccamento alla terra, facevano parte del mio quotidiano. È un amore che nasce da bambino ed è difficile staccarsene.
Quanto è importante per un enologo entrare in empatia con le persone che curano quella vigna e quelle colline?
In Francia si chiama terroir ed è tutto l’insieme dei valori che fanno parte integrante nella produzione di un vino. Le persone lo sono in modo particolare perché saper leggere tutti gli elementi che fanno parte del processo agronomico-enologico rivestono un ruolo fondamentale. Gli errori di incomprensione si pagano e, quindi, meno si sbaglia e migliore sarà il risultato finale. Gli uomini che seguono in processo agronomico-enologico devono far parte della tua interpretazione del vino e quindi si deve sempre ragionare all’unisono, altrimenti si perde sicuramente qualcosa lungo il percorso e il vino diventa un “puzzle senza qualche pezzo”, dunque, non completo.
Nell’immaginario collettivo degli appassionati di vino, dunque, non professionista, è il sommelier la figura più nota all’interno della catena “vino” mentre l’enologo lavora “dietro le quinte”. Quanto, secondo la sua esperienza, le due figure sono (se lo sono), in contrapposizione e quanto, al contrario, sono (se lo sono) complementari?
Non ritengo che ci siano figure più o meno importanti nella catena “vino”. Anche qui ci si deve esprimere all’unisono e non deve esistere contrapposizione ma sintonia tra le due figure. Il vino prima si produce e poi si consuma, per cui chi fa il vino e chi poi lo propone dovranno sempre interagire affinché. Chi lo beve, successivamente, sarà in grado di comprenderlo in tutte le sue sfumature.
Quanto è cambiata, più o meno positivamente, la sua professione, rispetto ai suoi esordi?
È cambiata la consapevolezza e, dunque, l’esperienza ha ridotto i margini di errore. Ma il concetto di come deve essere il mio vino è sempre lo stesso. Certo, nel frattempo, sono cambiati anche i gusti del consumatore. Credo, però, e, soprattutto, nei vini più “semplici”, quelli dove l’approccio dipende più dalla moda del momento. Nei vini “importanti” c’è più costanza e molta più esigenza da parte del consumatore “esperto” ed i parametri del DNA del vino non sono tanto cambiati nel tempo.
Pandemia e stato di salute del comparto vinicolo (Italiano e Internazionale), la sua esperienza attuale cosa può raccontare?
Non c’è dubbio che questa incresciosa situazione è stata, sia e sarà ancora per qualche tempo decisamente determinante per tutta l’economia e, quindi, anche per il comparto enologico. Comunque, tutto terminerà e tutto sarà dimenticato. Nel frattempo, dovremo prestare la massima attenzione agli inevitabili cambiamenti che la situazione contingente comporta. In Italia, molte aziende sono di proprietà di piccoli imprenditori, tendenzialmente di famiglie, che dovranno tirare la cinghia ancora per qualche tempo ma poi ritornerà il sereno. C’è tanta voglia di uscire e tornare ancor di più a bere qualche calice di vino. Sono fiducioso!
L’enologo è anche una figura controversa, acclamata dai più, ma anche oggetto di forti critiche da altri. Siete accusati di “creare” vini che devono soddisfare i canoni delle guide, insomma piacere a tutti. Fantasie, oppure c’è , in alcuni casi, una base di verità?
Il vino deve piacere a tutti, è il segreto di ogni grande vino o, comunque, di ogni vino di successo. Non ho mai creduto che si debba fare il vino per qualcuno. Penso che il vino sia la rappresentazione esemplare di un territorio e contenga la personalità di chi lo fa. L’enologo deve conoscere perfettamente questi parametri ed interpretarli senza sovrapporsi, anche se la sua firma è inevitabile che si riconosca.
Un suo pregio e un suo difetto, professionalmente parlando.
Sono come tante altre persone, con i soliti pregi e difetti. Tra i primi mi riconosco nella ricerca maniacale della precisione che sempre ho cercato nella definizione di un vino. Tra i difetti, forse, qualche volta questa ricerca è esagerata e mi rendo conto che diventa faticosa. Ma sono fatto così!
L'intervista all'enologo Gianni Menotti
Goriziano doc, Gianni Menotti è interprete e tutore attento del suo territorio d’origine, che ben conosce e che ama vivere in tutte le sue molteplici potenzialità
Nato a Sagrado (GO) nel 1955, Gianni Menotti è un bell’esempio di “figlio d’arte” che ha saputo ereditare, metabolizzare e trasformare con intelligenza e personalità le competenze genitoriali in successi propri. Cresciuto, nel vero senso della parola, dentro l’azienda friulana Villa Russiz, gestita per ben 35 anni da suo padre Edino, Gianni completa gli studi di Agraria a Padova, per laurearsi in Enologia con una tesi sul Picolit. Dopo l’esperienza professionale in una importante fabbrica di presse meccaniche per uva, tornato nella sua terra, nel 1988 subentra al padre, ereditando le redini enologiche di quell’azienda che tanto ben conosceva e amava. Poco dopo intraprende la strada della libera professione, che lo vede consulente in primis di diverse aziende friulane e poi di altre regioni in Italia e all’estero. Un nuovo corso, iniziato ormai dieci anni fa, per lui ricco di novità e di casi enologici da affrontare, che lo ha portato a raccogliere una sfilza di successi sia personali (dal titolo di enologo dell’anno nel 2006 e nel 2012, a quello di Ambasciatore dall’Associazione Nazionale Città del Vino, sempre nel 2012) che aziendali, con l’abbonamento pressoché fisso dei suoi vini ai maggiori riconoscimenti delle guide di settore. Determinato e perfezionista, Gianni resta però uno con i “piedi per terra”, visto che è innanzitutto un attento osservatore del territorio, che conosce, rispetta e cerca di rendere sempre protagonista nei vini. Un territorio già di per sé molto ricco di potenziale, sul quale, a suo dire, l’uomo deve intervenire il meno possibile, concentrandosi solo nel lavoro di tutela da svolgersi sul campo, in vigna. Anche a livello enologico gli interventi devono essere limitati al minimo puntando, piuttosto, sul lasciare emergere la personalità e l’equilibrio degli elementi. Un equilibrio che Gianni anela anche nella vita privata, attuando la massima mens sana in corpore sano nel suo dedicarsi a molteplici sport all’aria aperta, oltre che alla scrittura, ai viaggi e alla fotografia.
Gianni, appena trentenne, ti sei ritrovato a ereditare e proseguire il percorso professionale di tuo padre a Villa Russiz. Cosa hai conservato del suo esempio professionale e in che modo invece sei riuscito a emanciparti dalla sua figura, creando uno stile e un approccio tutto tuo?
«Quando sono entrato a Villa Russiz è stato per me difficile solo il poter duplicare la figura di mio padre che è stato lì per 35 anni. In un certo senso, però, è stato anche facile, visto che quell’aria, quelle terre, quella storia l’ho sempre vissuta in primo piano, passeggiando con lui nelle vigne e respirando ogni giorno l’aria magica della campagna. Ovviamente dovevo anche mettere del mio, cambiando senza sussulti certi meccanismi tecnici, portando in azienda il sapere universitario della facoltà di Agraria di Padova. Il tutto senza rovinare gli equilibri consolidati che in agricoltura sono molto difficili da spostare. Pian piano ci sono riuscito e così l’azienda ha cominciato a sentire e provare le novità che ho voluto inserire».
Essendo cresciuto in campagna, sei un attento osservatore e conoscitore della natura. Come trasli tutto questo nel tuo lavoro di enologo? Che valore dai alla parte agronomica e al lavoro in vigna? E quali accortezze adotti invece in cantina?
«La facoltà di Agraria mi ha insegnato molto e quindi la parte agronomica è stata fondamentale nell’approccio a nuovi stili enologici. Conoscere la natura delle tue vigne diventa prioritario nel proporre poi un vino che risponda ai requisiti del territorio viticolo a cui appartiene. L’enologo quindi è semplicemente colui che non danneggia quello che la vite ha dato nel grappolo d’uva, cercando un approccio non invasivo e lasciando che il processo della vinificazione avvenga nel rispetto di una trasformazione il più possibile naturale. L’enologo deve essere un attento osservatore di queste trasformazioni, colui che guida senza deviare il normale percorso del grappolo nella bottiglia. Per cui il mio lavoro è stato ed è quello di conservare il più possibile la natura nel vino; gli equilibri consolidati dalla natura devono essere rispettati, accompagnati dalla precisa conoscenza di tutto il percorso enologico».
Parliamo di vitigni. Tu sei senza dubbio un punto di riferimento per quanto riguarda il Sauvignon blanc. In poche parole, cosa caratterizza questo vitigno? Cosa ami e cosa temi di più di esso? Quali peculiarità tende ad assumere in territorio friulano?
«Ogni enologo ha necessariamente particolari simpatie e per me è stato fatale il Sauvignon, il mio “primo amore enologico”. Sono stato attratto dalle sue specifiche caratteristiche che all’inizio della mia carriera cominciavano a sentirsi assaggiando le varie proposte che arrivavano da diverse parti del mondo. Era molto stimolante cominciare a proporre un Sauvignon che si poteva distinguere nel panorama enologico friulano e sapevo che questo vitigno poteva dare una grande risposta, vivendo in un territorio di enorme profilo enologico. Il risultato è stato quasi immediato e le prime emozioni sono arrivate degustando un vino diverso da prima, dove la componente aromatica e la potenza si intersecavano in un connubio quasi perfetto. Quindi profumi molto particolari ed eleganti si univano a una struttura molto complessa e si è capito che il Friuli poteva essere terra di grandissimi Sauvignon, assolutamente unici nel confronto con quelli provenienti da altre zone del mondo».
Tu sei stato uno dei primi a sperimentare il legno piccolo sui bianchi, a partire dallo Chardonnay. Che valore dai all’apporto del legno nei bianchi, in un momento storico “del gusto” in cui si tende a storcere sempre più il naso all’uso della barrique?
«Per lo Chardonnay l’approccio enologico è stato molto diverso rispetto al Sauvignon. Qui il rapporto con il legno diventa naturale, ma non deve essere predominante; deve essere solo un supporto per ottenere un vino di grande equilibrio consolidato nell’unione tra eleganza e potenza. Poi la moda del legno sì o legno no può cambiare, ma non può cambiare il concetto di grande vino. Questo lo si può ottenere con o senza legno ed è qui che interviene l’enologo con la sua professionalità che cercherà il rapporto perfetto tra gli elementi che definiscono il grande vino e tra questi il legno può essere determinante».
Che valore dai alla conoscenza e al rispetto di tradizioni, territori e uve locali?
«Per quanto riguarda le tradizioni direi che non possiamo prescindere da esse. Ritrovare vecchi vitigni e farli rinascere nella moderna enologia è molto stimolante; mantenere le vecchie tradizioni, rivisitandole nel presente è fondamentale specie in Italia che dei vitigni autoctoni detiene il primato mondiale. Quindi le nuove conoscenze unite alle vecchie tradizioni possono essere strategiche nella proposta enologica del nostro Paese. Resta comunque il fatto che anche i vitigni cosiddetti internazionali non vanno abbandonati, ma fatti propri del territorio che li coltiva, facendoli diventare “autoctoni” nelle specificità di ogni zona viticola».
Quante aziende segui in questo momento e in che regioni? C’è qualche territorio del vino o vitigno con il quale ti piacerebbe metterti alla prova?
«Il mio lavoro oggi si sviluppa principalmente in Friuli ma grandi soddisfazioni le ottengo anche in Basilicata, Sardegna, Toscana, Veneto, Slovenia, Croazia e Romania. Altri territori dove vorrei confrontarmi ovviamente ci sono e qualcosa già bolle in pentola».
Qualche prova, enologica e non, visto che sei anche uno sportivo, in cui ti piacerebbe cimentarti?
«Per quanto riguarda le prove enologiche particolari credo di averne fatte parecchie, ma credo anche che ogni annata è una prova unica e l’enologo ha quindi a disposizione ogni anno esperienze straordinarie. Nello sport il tennis e lo sci sono per me molto importanti e fanno parte di quell’equilibrio che cerco di raggiungere anche nella mia vita».
C’è un pensiero con cui vuoi salutarci?
«Sì, vorrei cogliere l’occasione per dedicare un ricordo affettoso a una cara amica che ci ha lasciato recentemente, Claudia Culot. Un riferimento professionale qui a Gorizia per tutti noi del vino oltre che una grande persona a livello umano. Ci mancherà».
Cambiano i gusti dei consumatori
Negli ultimi anni i consumatori prediligono vini rossi più freschi e fruttati. Cosa comporta questo cambiamento per i produttori? Sono mode passeggere o richiedono delle modifiche strutturali in cantina? Lo abbiamo chiesto a due enologi di riconosciuta fama: Emiliano Falsini e Gianni Menotti
L’OPINIONE DALLA TOSCANA
Emiliano Falsini, toscano, consulente ed enologo per numerose aziende sul territorio nazionale. «È innegabile che negli ultimi anni abbiamo assistito in maniera evidente a un cambio stilistico nei vini prodotti non solo in Italia, ma in linea generale in tutto il Mondo, compresi i cosiddetti Paesi del Nuovo Mondo.
Eleganza, freschezza, mineralità e verticalità sono vocaboli entrati prepotentemente nel lessico comune dei degustatori di vino contrapponendosi a vecchi termini come potenza, concentrazione e struttura che erano i capisaldi della terminologia enologica degli anni 90.
Questa inversione di tendenza ha determinato, non solo un cambio della piattaforma ampelografica con la valorizzazione di alcuni vitigni dimenticati e poco valorizzati nel decennio anni 90, ma anche una nuova interpretazione enologica capace di esaltare tutte le caratteristiche volte a produrre vini eleganti e di grande finezza organolettica.
Varietà come il Nerello Mascalese in Sicilia, il Sangiovese in Toscana e il Nebbiolo in Piemonte nelle sue accezioni più eleganti e raffinate hanno segnato un cambio stilistico, per certi versi auspicabile, che oggi rappresenta il vino italiano di classe nel Mondo; oggi se il vino italiano vive un nuovo rinascimento è anche perché ha saputo evolversi e dare spazio a vini molto più territoriali ed eleganti.
Negli ultimi anni il cambio stilistico ha coinvolto non solo la valorizzazione di vitigni, soprattutto autoctoni, ma anche il modo di interpretare il vigneto e la cantina: le rese in molto casi si sono fatte meno esasperate, la maturazione delle uve è diventata una questione di grande sensibilità dove non è solo la maturazione zuccherina a determinare l’epoca di raccolta; inoltre in cantina, attraverso vinificazioni meno estrattive e utilizzo dei materiali alternativi al legno nuovo piccolo, abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione che ha coinvolto soprattutto le nuove generazioni di produttori ed enologi capaci di esaltare aree, vitigni e regioni che fino a qualche anno fa erano in alcuni casi marginali nella mappa del vino italiano.
Mi auguro che questa nuova linfa infusa nel vino italiano possa servire a far crescere ancora la consapevolezza nei tecnici e nelle aziende sulla valorizzazione delle differenze territoriali e permettere ai consumatori di apprezzare sempre più il grande patrimonio vitivinicolo italiano».
L’OPINIONE DAL FRIULI
Gianni Menotti 2 volte enologo dell’anno per il Gambero rosso e per Bibenda e consulente di diverse aziende in Italia e all’estero.
«Indubbiamente qualcosa è cambiato! O meglio, una fetta di persone, quella dei più giovani soprattutto, si approccia al vino con gusti diversi rispetto al passato.
Ricercano più la freschezza e la fruttosità che la complessità e la profondità, specialmente nei vini bianchi. In quelli rossi è più una conseguenza. È quindi il gusto giovane che parla una nuova lingua corroborato da opinion leader che promuovono questa nuova tendenza.
Resta però lo zoccolo duro dei “vecchi wine lovers”, quello dei più consumati, quello dove il gusto non è semplicità e facile beva, e che ricerca le sensazioni più recondite che solo un grande rosso può dare. Quindi c’è convivenza tra le due scuole di pensiero e tutte e due trovano i loro spazi piacevolmente riposti tra i seguaci della dinastia di Bacco.
Noi enologi ci adattiamo a queste richieste, senza stravolgere i nostri modi di fare il vino.
Semplicemente si decide in modo opportuno, rispettando le diverse tipologie di vino. Non ci sono particolari alchimie, ma solo diverse interpretazioni del processo enologico.
Si parte prima di tutto dalle uve che avranno maturità diverse, vinificazioni che cambiano solo per ottenere maggiore freschezza e morbidezza, nel caso dei vini giovani e fruttati. Sono vini che devono essere pronti subito, nei quali gli aromi primari dell’uva devono essere preservati e la vinificazione che ne consegue deve prediligere gli aromi fermentativi, quelli secondari derivanti dai processi di esterificazione.
Inoltre, è anche ovvio, non si va alla ricerca di una lunga conservazione, ma tempi di consumo piuttosto brevi. Comunque, non è più semplice ottenere questo tipo di vino!
L’enologo deve essere particolarmente virtuoso; la pulizia del vino è una caratteristica tipica dei vini freschi e ottenerla significa seguire scelte tecniche e tecnologiche particolarmente attente alla conservazione dei precursori aromatici dell’uva e alla esaltazione degli stessi nel proseguio dei processi di vinificazione e sosta in vasche prima dell’immissione sul mercato.
Mai superare l’asticella della freschezza che poi deborda in troppa complessità, ma allo stesso tempo si deve ricercare una “minore” maturità senza trovarsi immersi in note vegetali così poco gradite in qualsiasi tipo di vino rosso.
Però, lasciatemi adesso parlare dei grandi rossi, quelli che vogliono profondità, grassezza, struttura, tannino e tantissime altre “piacevolezze”.
Beh, qui mi ci trovo con tutto me stesso, voglio le emozioni, voglio trovare il grande lavoro dell’agricoltore, la vigna che si cala nel bicchiere e dove la maturità del frutto diventa prioritaria e tutto si concentra. Per fare questo ci vuole il territorio, quello consacrato dalla storia enologica della zona, un terroir a 360 gradi e che difficilmente scende a compromessi per produrre un vino più “facile”. Sarà difficile trovare un Barolo beverino, oppure un Brunello di Montalcino con sensazioni di “frutta fresca”!
Ma nemmeno un grande Merlot, magari del Friuli, dove vivo e so benissimo che in certi siti dedicati a questi vini monumentali, mai si vorrà fare il “merlottino” di pronta beva.
Qui la vinificazione è più tradizionale rivolta necessariamente all’estrazione del potenziale dell’uva, alla ricerca della pienezza del vino, senza particolari tecnologie, ma grande conoscenza della vigna che poi darà tutta se stessa nella bottiglia e che anche dopo tantissimi anni di conservazione potrà dare immense emozioni.
E quindi lasciamo che il mercato viaggi pure su due binari, che forse non si incontreranno mai, ma entrambi portano alla soddisfazione dei consumatori.
L’enologia è una scienza che permette molte soluzioni nel rispetto del territorio che sarà sempre prioritario nelle scelte produttive. Non potremmo mai stravolgere questo concetto che in noi enologi e in tutti coloro che nel vino si rispecchiano dovrà sempre essere fondamentale. E va bene così!»
Emiliano Falsini
Gianni Menotti
Consulenti enologici
Incontro con Gianni Menotti, già miglior enologo d’Italia e Oscar del vino
Da sempre friulano, da sempre interprete del territorio.
Lunedì 14 marzo 2016 alle ore 20:45, presso l’Associazione Cometa in via Madruzza 36 a Como, incontreremo Gianni Menotti, già miglior enologo d’Italia e Oscar del vino.
Enologo e agronomo, Gianni Menotti sfrutta i fattori di un territorio attraverso la vite e interpreta i capricci dei mosti. La serietà e la puntualità sono tra le sue abitudini. Un punto di riferimento, non solo per la viticoltura friulana ma anche per chi fa di questa professione una cosa seria. La lontananza da scorciatoie e vie brevi hanno reso il suo lavoro una indiscussa garanzia qualitativa, anche per i produttori stessi.
Attraverso le sue esperienze, la sera del 14 marzo, ci guiderà in un piccolo percorso attraverso alcune “cantine protette” e dei loro vini. Otto etichette rappresentative di territorio e varietà: dai classicissimi bianchi, che hanno fatto parlare di Friuli in tutto il mondo; ai rossi, diversi qui rispetto che altrove; al ricercatissimo e costosissimo Picolìt, dalla storia unica ed affascinante.
Un incontro non solo di degustazione, un incontro che lascerà il sapore di questa affascinante professione. Vivremo una grande esperienza attraverso quelle di chi sta contribuendo alla storia vera di questa straordinaria regione viticola.
Le 8 etichette in degustazione
1. Collio Friulano 2013, Ronco Blanchis (3 viti AIS 2015)
2. Friuli Colli Orientali Friulano 2014, La Viarte (3 viti AIS 2016)
3. Collio Sauvignon 2013, Ronco Blanchis (3 viti AIS 2015)
4. Friuli Colli Orientali Bianco Pomédes 2013, Scubla (4 viti AIS 2016)
5. Carso Malvasia 2015, Castelvecchio (prova di vasca; l’anno 2013 è stato premiato con 3 viti AIS 2015)
6. Friuli Colli Orientali Rosso Scuro 2012, Scubla (3 viti 2016)
7. Friuli Colli Orientali Refosco dal Peduncolo Rosso Riserva 2011, Valchiarò (3 viti AIS 2016)
8. Colli Orientali del Friuli Picolit 2010, Valchiarò (2 viti AIS 2016)
Le cantine protette di Gianni Menotti
Prendiamo spunto dalla nostra guida Vitae per uno scorcio sulle 5 cantine che approfondiremo durante la degustrazione.
Castelvecchio — Dalla fine degli anni Settanta questa azienda ha il merito di far conoscere al mercato, quello vero, che cos’è il Carso. Fino allora solo piccoli, coraggiosi contadini che producevano per sé e per gli amici. Oggi questi luoghi meravigliosi sono oggetto di riscoperta per la loro struggente belezza e per i prodotti che offrono. Ottimo lo staff in cantina e in vigna, che riesce a ottenere sempre il massimo. Qui è la malvasia istriana che mette tutti d’accordo.
La Viarte — Vigne di trent’anni su un terreno marnoso-arenaceo sono già un gran bel punto di partenza. Se si aggiunge un’attenzione maniacale in tutte le fasi di cantina e la volontà di dare a ogni vitigno solo ciò di cui realmente ha bisogno, identificando il lievito indigeno più adatto e riducendo al minimo l’impatto ambientale, gli ingredienti per un avvenire roseo e duraturo ci sono tutti.
Ronco Blanchis — Solo vini bianchi, quasi a suggellare il nome aziendale. Da qualche anno ha imboccato, a grande velocità, la strada della massima qualità. Il percorso virtuoso è dato dalle grandi firme che seguono la cantina ma principalmente dalla qualità dei vigneti, tutti esposti a sud, che forniscono rese basse e uve sane e che si vinificano senza diraspatura del grappolo.
Scubla — Piena, meritatissima conferma per i due vini, Pomédes e Scuro, che sono il simbolo dell’azienda ben capitanata da Roberto e sostenuta dal lavoro e dalla profonda amicizia che lega Gianni Menotti al fondatore di questa bella realtà, situata in uno dei cru più importanti e storici dei Colli Orientali. Alla base del successo non c’è solo una stretta proficua collaborazione, ma anche un’attenta lettura del territorio e delle sue straordinare potenzialità. La costante qualità dell’intera produzione lo dimostra alla perfezione.
Valchiarò — Un gruppo di amici, provenienti da aree professionali diverse, decidono di unire la passione per il vino all’attività imprenditoriale. L’idea ottiene subito risultati lusinghieri anche perché la vigna in collina è ben esposta e la consulenza enologica è prestigiosa. Da oltre vent’anni Valchiarò è un’azienda di successo. I suoi vini spaziano dai più gettonati autoctoni alle cultivar internazionali, che qui riescono davvero bene.
Profili organolettici dei vini in degustazione
Tutte le etichette in degustazione, a eccezione del Carso Malvasia di Castelvecchio 2015 che è una prova di vasca, sono state premiate con le prestigiose viti AIS.
I vini di Ronco Blanchis sono nella guida AIS Vitae 2015; quelli di La Viarte, Scubla, e Valchiarò sono sulla guida AIS Vitae 2016.
A voi sommelier, addetti ai lavori, e appassionati lasciamo la ricerca delle caratteristiche evidenziate sulle guide che potrete confrontare durante la degustazione.
AIS Como